Le ombre risero delle sue lacrime. 

Sagome scomposte, allucinazioni di arti si avvinghiavano al corpo solido di un uomo. Esalavano sospiri caldi come il vento dell’estate, e gemevano, e poi ridevano ancora. I loro contorni sfumati erano l’alito che gli scomponeva i ricci, che gli faceva ondeggiare la veste intorno alle gambe tornite. La stoffa si tendeva e si arricciava disobbediente, tirata da quelle forze invisibili che si stringevano fameliche ai suoi fianchi.

No, non era un uomo. Era un dio.

Pensavo che solo la pazzia mi avrebbe fatto visita qui. 

Sono già talmente folle da aver sperato che fosse lui.

Speravo che fosse tornato a prendermi.

La molle chioma del dio ondeggiò in un risata ebbra. Nascosti dai boccoli cotonosi, minuscoli germogli verdi fiorirono a coronargli la fronte. Una grande foglia palmata ora abbracciava la curva carnosa del suo orecchio e, dietro di essa, faceva capolino un frutto purpureo, lucido come il più prezioso dei monili.

Staccò quella gemma succosa dal suo nascondiglio verde. Appoggiò alle labbra quel chicco tumido e gonfio di promesse, gli schioccò un bacio prima di avvicinarlo a quelle della mortale.

Che altro posso perdere se non questo dolore?

Qui sono regina soltanto della mia sofferenza.

La mano della giovane scattò ad afferrare il polso che stringeva quel gioiello zuccherino. Aveva gli occhi gonfi dal pianto, spilli neri affilati dal dolore, ma non abbassò lo sguardo. Sfoderò i denti, avida ma dignitosa, leonessa, non iena. Prese il chicco tra le labbra. Lo morse e quello si aprì con uno schiocco osceno, gli umori stillanti le tinsero la bocca. Un rivolo amaranto le colò giù dal mento, insozzò le dita dell’uomo, e lei le avvolse nel calore della sua bocca. Leccò via ogni traccia di quella delizia.

Persino le ombre, per un misero istante, ammutolirono.

Allora uccidimi, o riempi questo vuoto che mi consuma.

Il dio socchiuse gli occhi. Liberò le dita da quel tenero nascondiglio, ruotò il palmo aprendolo verso il cielo ammantato di nuvole. Polso, gomito, collo, assecondarono quella danza finché la punta del mento non si torse a toccare la spalla. Le ombre gemettero insieme d’insana follia: ora quei capelli morbidi colavano nettare denso, che scivolava lungo ogni curva di quel corpo divino. Qualche goccia si arenò pigra nell’incavo della scapola, ma il resto del liquido scivolò obbediente: collo, gomito, polso. Tra le dita gli balenò un luccichio d’oro, ed ecco una coppa pronta a raccogliere quel nettare che si faceva sempre più scuro, e denso, e caldo. Strinse le labbra, fremente di piacere, e quando le distese raccolse con l’indice la minuscola goccia di sangue che era sbocciata. La lasciò cadere dall’alto come pioggia, come spezia pregiata, e quella affondò pesante nella coppa. E solo allora, col braccio ancora grondante di vino, la porse alla sua sposa.

E la sposa bevve.

Il rito era compiuto.

***

Per sette giorni e sette notti, la sposa fu convitato e banchetto.

Primo fra tutti era stato lo sposo ad assaggiarla. Le aveva leccato via le lacrime dal viso, e il sapore della sua disperazione le era piaciuto. Si era chiesto allora quanto potesse essere deliziosa la sua gioia.

Per sette notti e sette giorni avevano assaporato la sposa, uno dopo l’altro, e poi tutti insieme. 

Avevano morso la sua carne e leccato via il suo sudore, bramosi di quella minuscola stilla di sangue divino che ora dimorava dentro di lei. 

Ma adesso le ombre giacevano sfinite, affaticate dal peso che gli comportava il semplice manifestarsi. Dormivano l’una sull’altra, senza avere né il permesso né la forza di dissolversi. Ogni tanto si strofinavano tra loro, bramose di quel contatto perfetto che avevano soltanto quando si diluivano come nebbia, indistinguibili l’una dall’altra. La nostalgia di essere una cosa sola diventava desiderio bruciante. Esauste e affamate, ricominciavano a toccarsi, a cercarsi, e se i loro gemiti erano abbastanza forti allora anche il dio si univa a quel banchetto di carne dalle mille voci. Quando raggiungevano l’orgasmo, per un breve istante i loro contorni parevano sfilacciarsi e svanire di nuovo in quel luogo dell’esistenza dove dimoravano, dove il piacere e il dolore non hanno consistenza. Ma quando era il dio a godere, ognuno di loro vibrava d’una gioia così violenta che minacciava di far esplodere quei miseri confini di carne. 

Ora lo sposo sonnecchiava, la testa abbandonata sul ventre accogliente della sposa. Aveva fatto delle cosce di lei comodi braccioli, disteso come un imperatore su quella lettiga di morbidi corpi che gli appartenevano. Alzò gli occhi verso di lei, ma quella guardava l’orizzonte.

«Scruti ancora il mare? Persino io non sono in grado di soddisfarti?»

Respiri, sussurri, lamenti: il mare di membra sotto di loro ondeggiava, placido, ma immobile. L’acqua invece si infrangeva cruda contro gli scogli appuntiti.

«Non è questo, mio signore.»

La sposa si volse. Dal suo viso era scomparso ogni segno di quel dolore, ma i suoi occhi erano affilati. Il chiodo che le aveva trafitto il cuore era stato estratto, ma adesso che lo teneva tra le mani lo vedeva per ciò che era: un’arma.

«Vorrei da te un dono, per le nostre nozze.»

«Sfrontata. Cosa desideri?»

«Concedimi un ultimo viaggio.»

«Per dire addio al tuo passato?»

«Per seppellirlo.»

***

La sposa aveva il volto coperto, ma ben presto capì che nessuno sarebbe mai venuto lì a cercarla. Vi erano ancora le tracce della sua precipitosa fuga.

Da bambina aveva immaginato che ci sarebbero state feste e balli, e che quella fortezza maestosa si sarebbe trasformata in un palazzo quando il mostro avesse trovato la sua giusta fine. Eppure ogni pietra, ogni roccia, sembrava aver trattenuto con sé un eco della morte che aveva visto. Polvere si alzava sotto i suoi calzari, con un rumore sordo come una malsana tosse. Le tozze colonne color del sangue assorbivano la luce e la restituivano irrimediabilmente macchiata di atroci ricordi.
Quel luogo ormai sarebbe stato solo un cimitero.

La sposa aveva gli occhi bassi, ma non per pudore né per orrore. Smaniosa, cercava il segno dorato del suo passaggio, il ricordo luminoso del tradimento subìto.

Seguiva quel filo intessuto d’oro e di promesse, abbandonato in quella tomba a cielo aperto. Un filo adatto a intessere un abito nuziale – no, il corredo funebre di un re.

Eroe, l’avevano chiamato. Un uomo più astuto l’avrebbe abbandonata dopo averla sedotta. Avrebbe avuto l’accortezza di dimenticarla dopo che i figli e la vecchiaia l’avessero consumata. Poteva avere almeno il buon gusto di farle patire la solitudine in un palazzo colmo di servitori e agi quando si fosse stufato di lei. Invece aveva dimenticato troppo in fretta a chi doveva la sua vittoria.

Destra, destra, sinistra, i corridoi si contorcevano in profondità come viscere, inghiottendo la luce. Il puzzo della morte grondava dalle pareti: non avrebbe mai abbandonato quelle sale, ci avrebbero ballato dentro soltanto i fantasmi.

Più si avvicinava al centro, al cuore pulsante di quella trappola, più il suo di cuore accelerava dettando il ritmo ai suoi passi, più veloce, più veloce. Avrebbe dovuto provare timore, ma aveva seppellito la paura insieme alla ragione lì, sull’isola dove aveva incontrato il suo sposo divino. Splendide prigioni, le isole.

L’ultimo crocevia. Il filo dorato correva per qualche altro passo ed infine terminava poco prima di un cubicolo fiocamente illuminato dalle luci dell’alba. Non c’era bisogno di tenere gli occhi a terra: i rantoli d’agonia della bestia ormai facevano eco ai suoi respiri. Era lì.

La sposa mosse un passo. Si morse l’interno della guancia, combatté l’istinto di vomitare dal puzzo di lercio e carne infetta che si spandeva dalla stanza. Il sangue nella sua bocca era dolciastro e zuccherino, ma conservava un debole ricordo ferroso della sua natura mortale. 

Forse il tempo avrebbe cancellato anche quello.

La sagoma del corpo riverso sulla schiena era trafitta da lame di luce. Una di esse, come a volerlo schernire nella sua sconfitta, impreziosiva di riflessi brillanti una fredda elsa in ferro. Incastonata al centro del petto, la sposa riconobbe la sua spada.

Si avvicinò ancora, ebbra del suo stesso sangue. Forse era una bestia, ma il dolore che gli contorceva il muso e gli disturbava il sonno era terribilmente umano. 

Il piacere ha numerose forme e linguaggi, ma la sofferenza ha un solo deforme volto.

Aveva dato ogni cosa a Teseo, ma su una cosa, una sola, aveva scelto di mentire. Un piccolo diabolico dettaglio. L’aveva mossa fin dall’inizio la pietà per quella creatura, o nell’angolo più buio della sua mente aveva già visto il tradimento di quell’uomo? 

Affondò la mano nel pelo della creatura, zuppo di paura e sudore. Non aveva scelto lui di nascere in quel modo. 

«Non è ancora il momento di morire.»

Farmaci e veleni sono la stessa cosa per chi non sa come adoperarli. A volte l’uno si trasforma nell’altro, col passare del tempo. Come le parole d’amore.

La bestia latrò di dolore. Inerme, tentò di aprire gli occhi porcini, incrostati dalle lacrime della sconfitta. Un corpo caldo, e vivo, e palpitante scivolò giù dal suo torace per sistemarsi sui suoi lombi. Un calore mai provato infiammò quelle membra morenti.

«Rendimi la madre dei suoi incubi.»

In quell’ultimo sussurro, infine, i mostri saziarono entrambi la loro fame.

di Fosca Topazia ( IG _atharaxis_ )

Immagine free Pixabay

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