La lama era affondata nel suo fianco, centimetro dopo centimetro nella sua carne cedevole. Erano gelo e adrenalina fuse insieme. Il dolore e la sorpresa giocavano a nascondino nella sua testa senza che lui potesse decidere quale dei due vincesse.
Il fiato gli si era bloccato nei polmoni e gli occhi si erano spostati su quella figura che lo aveva pugnalato: capelli unti, occhi bianchi e traslucidi, denti storti e vestito da straccione. Chi era quell’uomo?
«Fullføre blodørnen.» La voce era bassa e Dean non sapeva cosa significasse o che lingua fosse. Che gli aveva detto?
La lama venne estratta per poi tornare a sprofondare nelle sue viscere. Il metallo entrava e il sangue colava fuori, lungo la ferita e la gamba, caldo. Una sua mano scattò per cercare di fermare il movimento del pugnale.
Non sapeva se stava urlando o se stava soffrendo. Era tutto così confuso in quel momento.
Le labbra dell’uomo si piegarono in un ghigno folle, in una risata malvagia.
Si sentiva debole e le dita si chiusero sulla ferita. Le gambe gli cedettero e la vista iniziava a intorpidirsi.
«Fermo… polizia di Los Angeles!»
Quella voce apparteneva al suo collega, Haydan. Girò il capo e degli schizzi di sangue lo colpirono sul volto, il suono dello sparo rimbombò tra le case. Il corpo di quell’uomo cadde a terra senza vita. Perché quel folle lo aveva pugnalato?
«Dean!» Il rumore della radio che veniva accesa portò Dean a spostare gli occhi dal cadavere al collega. «Centralino, ho bisogno di un’ambulanza! Agente a terra! Ripeto: agente a terra!»
Si sentiva debole e aveva brividi in tutto il corpo. Era la prima volta che veniva pugnalato, gli pareva che la lama fosse rimasta dentro, fredda e estranea. Abbassò la testa per controllare: non c’era. Il sangue colava, per quanto premesse sulla ferita, seguì con lo sguardo la scia rossa. La mano del suo aggressore ne era ricoperta, così come il pugnale, di oltre venti centimetri, che teneva ancora ben saldo tra le dita.
«Dea…» Il suo cuore pulsava così forte nelle orecchie che non riusciva a capire cosa Haydan gli stesse dicendo, o forse stava urlando? Era troppo stanco per cercare di capirlo.
Aveva la vista sfuocata. Le palpebre erano così pesanti da non riuscire a contrastarne la volontà di chiudersi.
Il rumore assordante di un’ambulanza rimbombò lontano nelle sue orecchie. Era troppo stanco per aspettare.
Il bip dei macchinari disturbò il suo sonno. Non riusciva ad aprire gli occhi, il suo corpo non aveva le forze per muoversi.
Blodørnen. Un brivido freddo si srotolò dall’orecchio lungo la sua schiena. Qualcuno gli aveva sussurrato quella parola straniera. Strinse i denti così forte da farli scricchiolare, ma riuscì ad aprire le palpebre. Girò la testa per poter capire chi gli stesse sussurrando quella parola.
Nessuno. C’erano solo i macchinari.
Come era possibile? Non se lo era sognato, era sicuro di ciò che aveva sentito. Cercò di mettersi a sedere, ma una fitta al fianco lo obbligò a ringhiare di dolore. Il corpo sembrava essersi risvegliato da un lungo sonno: il dolore si faceva sentire in scariche che correvano dritte al cervello, i punti tiravano sulla ferita con ferocia e il cuore pompava aumentando il ritmo.
Si trovava in ospedale, ma non si ricordava il motivo. Che gli era accaduto?
Kom deg opp. Quella voce gli accarezzò l’udito. Si voltò di scatto – il dolore era un ricordo scolorito – certo di trovarci qualcuno, ma ancora una volta non c’era nessuno. Non capiva cosa stesse accadendo e non capiva la lingua di quei sussurri. Stava impazzendo? Non si ricordava nemmeno come si chiamava.
Il pulsare del cuore gli era arrivato nelle orecchie, era frenetico e il suo respiro seguiva il ritmo. Le mani gli tremavano senza motivo.
Se era in un ospedale, dove diavolo erano tutti?
Cercò di aprire bocca, ma non uscì nessun suono. Il silenzio era interrotto solo da quel continuo bip continuo. Null’altro.
Con mano tremante afferrò la flebo e la strappò dalle vene. Si tirò a sedere con una smorfia di dolore. Il sangue iniziò a colare e il rumore della prima goccia che cadde a terra risuonò tra le mura con la forza di un tuono.
I suoi piedi toccarono il pavimento freddo e un brivido si inerpicò lungo le gambe. Indossava un camice chiuso sul davanti, ma si era spostato e la medicazione stazionava sul suo fianco, una piccola macchia rossastra si stava già allargando al suo centro. Doveva essergli saltato un punto.
Si alzò in piedi, ma crollò, come se non avesse uno scheletro. Le ginocchia colpirono le piastrelle e il suono della sua caduta rimbombò nella stanza insieme a un suo urlo. Boccheggiò a terra. Il dolore sembrava divorargli le membra e sparire alla stessa velocità con cui era arrivato.
Allungò una mano e artigliò il lenzuolo del letto. Usò la forza per tirarsi in piedi, doveva aver pestato alcune gocce del suo sangue visto che sotto la pianta di avvertiva una sensazione di bagnato.
Aveva il respiro pesante. Quei pochi movimenti erano stati duri. Si passò la stoffa fresca contro la fronte sudata.
Cosa era successo? Quella ferita da dove veniva?
Non si ricordava nemmeno il suo nome.
Gå, kriger. Ancora un sussurro vellutato nelle sue orecchie. Non c’era nessuno e non capiva cosa volesse quella voce da lui. Cosa significavano quelle parole e in che lingua erano?
Raddrizzò la schiena ed emise un lungo sospiro. Il solo stare in posizione eretta gli faceva tremare le gambe. Incespicò nei suoi passi e urtò il carrello con i farmaci. Il rumore metallico e di boccette di vetro che si rompevano gli riempì le orecchie. Riuscì a rimanere in piedi solo perché si era aggrappato allo stipite della porta.
Il cuore batteva all’impazzata.
Gli occhi si posarono su un bisturi ai suoi piedi. Lo sguardo corse all’ambiente asettico di quella stanza d’ospedale, ai suoi colori chiari e al caos che regnava sul pavimento. Non ci stava capendo nulla e l’oggetto affilato poteva essere usato come arma in ogni caso. Non era mortale, ma poteva diventarlo.
Fullføre blodørnen.
Un frullio di ali e si ritrovò al centro del corridoio. Tra le mani teneva il bisturi. Girò su se stesso, perplesso.
Che cosa diavolo stava accadendo?
Mosse un paio di passi. Le sue gambe resistevano. Il rumore dei suoi piedi scalzi sul pavimento freddo risuonava nel corridoio.
Arrivò alla prima porta, era aperta e dava su una stanza asettica. C’era una grossa macchia di sangue a terra, dalla quale si muovevano diverse impronte. Sul pavimento c’erano garze sporche e un paio di guanti blu in lattice.
Chiunque ci fosse stato in quel luogo sembrava essere scomparso nel nulla.
Nel corridoio trovò alcuni fogli sparsi sul pavimento: ne raccolse uno, ma il nome sembrò essere stato cancellato, più sbiadito e reso impossibile da leggere.
Lo lasciò cadere e ne seguì la lenta caduta. Non esisteva nessuno o era lui che si trovava in un limbo? Eppure il dolore lo aveva fatto tremare.
Aggrottò le sopracciglia. L’intera situazione avrebbe dovuto fargli paura, avrebbe dovuto generare in lui uno stato di agitazione, ma oltre al cuore che batteva veloce e il suo respiro che correva, la mente era libera.
Porta a termine l’aquila di sangue.
Il sussurro era diventato una voce nella sua testa, era donna e uomo, era lingua antica e odierna, e lui capiva il significato, ma non ne comprendeva il senso.
Come faceva a capire?
Il frullio di ali sembrò avvolgere tutto il suo corpo, l’aria spostata dalle piume gli fece venire la pelle d’oca e il gracchiare di un corvo gli perforò l’udito in una sinfonia stridula.
Le palpebre si sollevarono e gli occhi vagarono su una distesa immensa di bianco. la neve creava disegni astratti intorno a lui, si trovava in una radura circondata da montagne.
Il suo sguardo scivolò verso il basso. Era nudo e la ferita scomparsa. Il suo corpo era ricoperto da rune sanguinanti. Piccole ferite scarnificate, dalle quali colavano gocce scarlatte. Non facevano male, erano calde e pulsavano.
L’urlo di un’aquila gli fece alzare la testa verso l’alto. Il rapace volava maestoso sopra di lui, ogni battito d’ali era una ventata di aria che fomentava quel calore che saliva dalle sue viscere.
Impugna l’ascia.
Il legno del manico era leggero tra le dita. Da dove era apparsa quell’arma? Posò gli occhi sulla lama in metallo grezzo e li fece scorrere sulle rune incise. Spostò lo sguardo verso la distesa bianca e si soffermò sulla figura a pochi metri da lui: un uomo legato. Era in ginocchio, nudo; i polsi erano avvolti da corde fini che avevano inciso la carne fino a far gocciolare il sangue sulla neve. Le funi erano tese e legate alla parte basse di due pali che sprofondavano nel terreno. Il petto del condannato era appoggiato a un enorme masso. Sulla schiena c’era disegnata in bianco un’aquila con le ali spiegate.
Chiunque fosse quell’uomo a lui non importava, sapeva ciò che doveva fare.
I passi lo fecero affondare nella neve, lo scricchiolio che producevano i suoi piedi su quel manto era l’unico suono. Non aveva freddo, ma un brivido gli percorse la schiena. Aveva dentro di sé una sensazione unica: sapeva come doveva muoversi ed era estasi pura.
Quale era il suo nome? Non se lo ricordava, ma sapeva che ciò che doveva compiere era giusto.
Le cime delle montagne lo circondavano e una leggera brezza accarezzava la sua pelle nuda. Alzò gli occhi al cielo limpido e inspirò, lasciò che il vento gli scorresse dentro oltre che intorno.
Accarezzò l’epidermide della schiena che aveva di fronte con i polpastrelli e seguì la forma delle vertebre. Un ghigno feroce si fece largo sul suo volto.
Lasciò scorrere l’ascia lungo tutta la colonna vertebrale e il sangue prese a seguire la sua carezza d’acciaio. L’urlo proruppe dalla gola del condannato, ma non poteva muoversi.
Alzò il braccio e affondò la lama sulle prime due costole. Le ossa si ruppero e il rumore echeggiò silenzioso prima della sofferenza dell’uomo, che scoppiò in un grido.
Doveva stare attento a non incidere gli organi interni, il suo doveva essere un lavoro veloce e meticoloso, lo doveva a Lui.
L’ascia affondò ancora e ancora. La colonna vertebrale era esposta, bianco e rosso si mischiavano tra loro. Il sangue colava in ogni direzione, si diramava come i rami di un albero. Era una visione stupenda e non aveva ancora finito.
L’uomo era svenuto: aveva smesso di urlare. Doveva sbrigarsi.
Appoggiò l’arma a terra e affondò le mani tra le coste spezzate. Il contrasto con l’ambiente esterno gli fece venire i brividi, quel corpo era caldo e pulsante.
Le dita si chiusero sulle prime costole e iniziò a tirare. Con uno scricchiolio e uno schiocco riuscì a spostare i primi lembi e continuò finché tutto il lato fu aperto. La pelle era rimasta attaccata alle ossa andando a creare la prima ala dell’aquila. Era perfetta.
Il polmone sotto di essa si gonfiava e si sgonfiava a un ritmo veloce. Allungò le dita e ne accarezzò la superficie liscia. Era stupendo.
Aveva le mani sporche di sangue, ma le rune scarnificate si rilucevano in un contrasto strano. Sembravano quasi ribollire in quel momento.
Si dedicò all’altra ala con la stessa identica dedizione: appoggiò le mani sulle ossa scheggiate e piegò le ginocchia per aprire la gabbia toracica e fare in modo che l’aquila potesse spalancare le sue ali.
La bianca colonna vertebrale divideva a metà i polmoni rossi.
Allungò una mano e girò il palmo verso l’alto. Chiuse il pugno e lo riportò a congiungersi con l’altra mano. Granelli bianchi caddero da una all’altra in una piccola cascata salata. Sparse il sale su tutta la ferita, accarezzò i polmoni e le ossa biancastre che sporgevano.
Affondò le dita tra gli organi per avvolgere uno dei polmoni e rimuoverlo dalla sua sede; era tiepido e liscio, era sprecato su un uomo di quel genere.
Lo adagiò sulla scapola e fece la stessa cosa con il gemello.
Si gonfiavano ancora, il condannato era ancora vivo.
Chiuse le mani sui due organi, ci affondò le dita per riuscire ad afferrarli senza che scivolassero, e alzò il volto al cielo.
«Odino! Un sacrificio in tuo nome. Che questa aquila di sangue possa volare da te a chiedere perdono per tutti noi.»
La voce era bassa e tetra, rimbombava nell’immensità di quel luogo. Le braccia si muovevano e l’urlo di quell’uomo si affievolì. I polmoni erano dove dovevano essere: infilzati nelle costole divaricate.
L’aquila aveva preso il volo e il suo urlo risuonò nell’immensità.
La patina oscura sembrò diradarsi dagli occhi. Sbatté le palpebre un paio di volte e, quando riuscì a mettere a fuoco le sue mani, le trovò scarlatte. Fino al polso erano lerce di sangue in modo uniforme, alcune gocce raggiungevano il gomito. Che diavolo era successo?
Dallo studiarsi le mani passò a ciò che si trovava di fronte. Fece un passo indietro e la sua bocca si aprì per incanalare più ossigeno possibile.
Era un corpo, nudo e legato con corde ai polsi, la sua schiena incisa e aperta come se le sue coste fossero state la copertina di un libro. Il sangue doveva provenire da quell’uomo.
Il frullio delle ali di un pennuto lo obbligò a spostare la testa di lato, un grosso corvo si era appollaiato su una ringhiera. Dietro di lui poteva intravedere un paio di altalene che cigolavano e delle casette per bambini.
La nebbia era leggera, l’erba era fresca sotto ai suoi piedi nudi. Le immagini di ciò che era accaduto fino a quel momento gli passarono dietro alle palpebre con una violenza che non si aspettava.
Spalancò gli occhi. Le mani gli tremavano. Era stato lui, era colpa sua se quell’uomo era conciato in quel modo. Il respiro si era fatto corto nei suoi polmoni.
Girò su se stesso e notò, oltre al parco giochi, c’erano delle case disabitate: dove era finito?
La neve, le montagne, l’ospedale e prima ancora era stato pugnalato. Non ci stava capendo nulla.
«Mani in alto!» Quelle parole lo sorpresero, non se l’aspettava. Si voltò e alzò le mani all’altezza delle spalle. La luce della torcia lo stava stordendo, ma riconosceva quella voce: apparteneva al suo collega Haydan.
«H-Haydan, sei tu?»
«Fermo dove sei, Dean!»
Il rumore metallico della sicura che veniva rimossa portò Dean a bloccare il passo che stava muovendo. Perché era così aggressivo? «Haydan, che sta succedendo?»
Abbassò lo sguardo e notò che il suo piede era a pochi centimetri dall’ascia insanguinata. Mosse un passo in avanti. Il dolore lo colpì in centro al petto, sentì la pallottola penetrare tra le costole. Il suono dello sparo riecheggiò nell’aria nebbiosa.
Le gambe di Dean divennero molli e il suo corpo crollò a terra. L’ultima cosa che vide era lo sguardo terrorizzato di Haydan. Sulle labbra la silenziosa domanda del perché gli avesse sparato.
***
«Notizia dell’ultima ora: un poliziotto dell’unità di Los Angeles è stato freddato dopo essere stato accusato di aver barbaramente ucciso il vescovo che settimana scorsa aveva fatto parlare di sé per degli abusi su minori. Restano sconosciuti sia il motivo sia il movente di questo omicidio. Restate sintonizzati per avere notizie sul caso.»
Di Bianchi Sara
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