«L’hai sentito?» domandò Ruth nel buio della stanza. Percepì un leggero movimento accanto a lei e il calore si diffuse sulla pelle del fianco, attraverso il tessuto del pigiama; pochi secondi dopo fu seguito da una dolce vibrazione di fusa. Il gatto lo faceva ogni volta che lei parlava con nella voce quella particolare nota di paura che solo lui sembrava in grado di sentire.

Ruth sapeva che Rog, il gatto grigiastro con lei da ormai tredici anni, aveva iniziato quel loro rituale notturno solamente da quando si erano trasferiti in quella casa: forse anche lui ricercava calore in difesa dei rumori che quasi ogni notte li turbavano.

Il suo sonno era stato interrotto da uno dei suoni più ricorrenti: lo sbattere forsennato di ali vibranti che ormai era convinta appartenessero a pipistrelli annidati chissà dove. Durò parecchi minuti e per tutto il tempo la donna tenne una mano posata sul pelo morbido di Rog, cercando di concentrarsi sul suo respiro lieve. A un certo punto i leggeri movimenti delle sue dita finirono: Ruth era scivolata di nuovo nel sonno, percependo fino all’istante prima dell’oblio la presenza rassicurante del gatto accanto a sé.

Solo la mattina successiva, aperti gli occhi sulla stanza inondata dai caldi raggi del sole e trovandosi nel letto da sola, ricordò: Rog era morto undici giorni prima. 

Abitavano in quella casa da ormai dieci mesi. Dopo l’acquisto lei e Phil si erano trovati proprietari di una dimora decadente; la convinzione di avere fatto un affare, però, venne confermata a lavori ultimati quando videro finalmente l’abitazione in cui avevano deciso di vivere. Phil era stato il principale autore delle varie migliorie, ma Ruth si era imposta per alcuni dettagli che le avevano poi donato più gioia del previsto: primo tra tutti, il caminetto di mattoni. 

Si era immaginata seduta su una poltroncina proprio lì, accanto al fuoco acceso, un libro tra le mani e Rog a sonnecchiare accanto a lei. Quando arrivò l’inverno quella fantasia si avverò e Ruth ricordava bene una sera in cui aveva guardato il muso pacifico del gatto addormentato e si era lasciata andare in un sospiro di felicità. 

Era lì che Phil gliel’aveva rinfacciato? In quel momento, nonostante fossero passati mesi, Ruth era convinta di sì. Lui l’aveva osservata a lungo dal divano su cui si era seduto a guardare la televisione, per parlare solamente quando lei si era accorta del suo sguardo fisso:

«Ti piace?»

«Cosa?» domandò lei, guardinga. Quel giorno Phil aveva avuto screzi a lavoro e quando capitava diventava particolarmente permaloso; ormai riconosceva quando iniziava una chiacchierata solo perché voleva discutere.

«Era quello che volevi, una bella poltrona per te e il tuo gatto. Stai sempre lì» fece lui, confermando i suoi sospetti. Aveva riportato gli occhi sulla televisione, parlando con un tono falsamente noncurante.

«Sai che ho freddo… »

«Il freddo dovevi aspettartelo quando hai insistito per tenere la pietra» la interruppe subito lui; alludeva alla parete adiacente al camino, un dettaglio che l’aveva conquistata subito e, sì, su cui si era impuntata perché fosse mantenuta com’era. Lui però sapeva bene che Ruth aveva freddo perché soffriva quella stagione e lei aveva capito che ricordarglielo non sarebbe servito a niente.

«Hai ragione» disse Ruth. Il silenzio che seguì restò sospeso tra di loro: temeva che tornando a leggere lo avrebbe infastidito ancora di più, come se lei non desse abbastanza peso alle sue parole.

Ma Ruth dava loro peso. A volte le sembrava assurdo soffermarcisi così a lungo, percepire quel peso sul cuore: non si potevano nemmeno definire discussioni vere e proprie, si diceva.

Eppure quella sera, così come le sere già avvenute in passato e come quelle che avrebbero preso scena nei mesi successivi, il macigno sul cuore era lì. Solamente quella sera, però, si accorse che anche Rog sembrava turbato: si era risvegliato e aveva il muso rivolto verso Phil, una strana espressione di stanca intelligenza nello sguardo felino. Ruth era rimasta a fissarlo, incantata dalla capacità del gatto di sembrare, a volte, incredibilmente sagace.

Ci aveva pensato anche undici giorni prima, quando era stato trovato il cadavere dell’animale per strada. Come aveva potuto una creatura così intelligente scappare dal suo nido e finire per essere investito?

Nella mente di Ruth era iniziata a formarsi l’ipotesi che qualcosa all’interno l’avesse spaventato. Forse la stessa cosa che continuava a generare quei rumori notturni, turbando il suo sonno.

Ruth aveva già avuto modo di esplorare il quartiere, composto da villette di modeste dimensioni e abitato da persone cordiali; eppure nessuno aveva visto il pirata della strada che aveva investito il suo povero vecchio Rog. Nessuno si era accorto del cadavere dell’animale sino a quando era tornata lei, la sera, e l’aveva visto lì in mezzo alla strada, proprio di fronte al loro ingresso.

Il giorno dopo la tragedia Phil era partito per un viaggio di lavoro che l’avrebbe impegnato per parecchi giorni: un tempismo pessimo che aveva trascinato Ruth nell’ossessione della mancanza di Rog. Fu la terza notte dall’avvenimento orribile che tornarono i rumori notturni: toccò a dei passi, piccoli passettini come di topi troppo grandi o bambini molto piccoli. Ruth si ripeteva che era tutto frutto della sua fantasia: quante volte aveva svegliato Phil, spaventata, e lui le aveva detto malamente di tornarsene a dormire? Quante volte Rog si era accoccolato accanto a lei per darle conforto, accompagnandola di nuovo nel mondo dei sogni?

Ma non c’erano né Phil né Rog: solo lei da sola nel buio, circondata da quel rumore leggero di passi. 

Dopo essere arrivata al punto di sognarlo nel letto accanto a sé Ruth decise che ne aveva decisamente abbastanza: se proprio doveva trovare una ossessione su cui focalizzarsi, pensò, che fosse il risolvere il mistero di quei rumori.

Iniziò l’indagine dalla soffitta, che in realtà non la preoccupò molto: la luce del sole che filtrava dall’unica finestrella presente annullava ogni parvenza di tetro sottotetto polveroso. Non vi erano pipistrelli in vista, così come non trovò tracce di qualsiasi genere che indicassero la presenza di topi; nonostante ciò Ruth tornò all’appartamento decisa a non farsi ingannare dalla luce del sole che rendeva tutto più concreto e rassicurante.

Quando iniziò a esplorare la zona principale dell’abitazione, ovvero l’appartamento, si rese conto che sarebbe stata la parte peggiore: stava trovando una moltitudine di ricordi di Rog. Elastici dispersi, carte accartocciate, pallette evanescenti di peli che si spostavano con un sospiro: tutto ciò che lei considerava conseguenza inevitabile in una convivenza con un gatto, che Phil aveva sempre detestato, tutto ciò in quel momento le generava un groppo in gola che le faceva male.

Il momento peggiore arrivò quando in una libreria trovò gli album di fotografie che lei si ostinava ad accumulare: Ruth si ritrovò a sfogliarne alcuni e proprio lì, tra la fotografia del sul primo appartamento e la prima foto di lei e Phil assieme, proprio lì trovò Rog. Un cucciolo, in quell’immagine, una piccola palla di pelo di appena un mese: in quella fotografia dormiva beato sopra una pila di coperte e Ruth non poté fare altro che continuare a guardarla, rapita dai ricordi.

Si fermò per asciugare una lacrima e fu in quel momento che percepì una lieve pressione sulla gamba destra, come una carezza. In automatico allungò una mano per affondare i polpastrelli nel pelo morbido del gatto, come aveva sempre fatto quando l’animale si strusciava su di lei; ma le sue dita non trovarono nulla.

Abbassò gli occhi, confusa. La mente impiegò qualche istante a realizzare quello che fino al minuto precedente era già stato accettato, ovvero che Rog era morto. Eppure ne era certa: non se l’era immaginato.

«L’hai sentito?» chiese all’animale, sfiorandosi le dita l’una con l’altra. Non ricevette risposta.

Mancava poco al tramonto e decise di uscire in giardino per rispondere alla chiamata in arrivo a breve da Phil: in quel modo, pensò Ruth, quantomeno sarebbe stata già vicina all’unica zona che le mancava da esplorare. Il giardino era l’ultimo spazio di tutta la proprietà su cui si soffermava il sole prima di scomparire dietro l’orizzonte; non faceva ancora freddo quando si sedette su una delle sedie di metallo, col cellulare tra le mani in attesa della chiamata e la mente impegnata a rigirarsi su quanto era accaduto la notte precedente e poco prima, in un gorgo che non riusciva a evitare.

Il telefono iniziò a vibrare e Ruth vide la richiesta per una videochiamata: l’accettò immediatamente, corrugando la fronte perché non si erano mai sentiti in tale modo.

«Dove sei?» le chiese subito Phil, il volto a occupare gran parte dello schermo. «Sei tutta imbacuccata, sembri un blob informe. Hai il triplo mento.»

«È il telefono» accusò lei, raddrizzandosi.

«Certo. Beh, come va?»

«Bene» mentì. Sapeva come sarebbe andata la conversazione e non si preoccupò di aggiungere altro: subito infatti Phil partì con le lamentele sul lavoro, i colleghi, tutto quanto. Sentirsi al telefono era una delle modalità che Ruth preferiva perché poteva lasciarlo sfogare senza che lui pensasse non lo stesse ascoltando; fece quindi vagare la mente sulla lista di commissioni da fare, realizzando solo superficialmente che per la prima volta da giorni tornava a pensare a faccende quantomeno normali, dopo la morte del gatto. Forse il percepirlo vicino a sé l’aveva aiutata a processare il lutto, si disse mentre Phil blaterava: forse significava che Rog sarebbe sfumato in un ricordo colmo di affetto, e anche i rumori notturni sarebbero scomparsi.

Poi alzò lo sguardo verso una finestra e vide il gatto che la osservava attraverso il vetro.

Fu troppo sorpresa per fare qualunque cosa. Rimase seduta lì, su quella sedia di metallo sempre più fredda, gli occhi piantati sulla figura alla finestra che conosceva così bene. Era Rog, ne era certa: l’aveva già visto lì di vedetta, spesso quando la sentiva arrivare di ritorno dal lavoro. Si vide mentre si alzava e correva all’interno per precipitarsi dov’era lui; ma dentro di sé sapeva che, se l’avesse fatto, non avrebbe trovato niente. Così se ne stette lì seduta, il sole che scompariva all’orizzonte e quell’ombra che continuava a guardarla: l’espressione di stanca intelligenza così forte nei brillanti occhi felini.

«Grazie per la compagnia, eh» sentì dire Phil. «A domani. Buonanotte.»

«Anche a te» rispose meccanicamente Ruth. Le parole che Phil iniziò a urlare riuscirono a farle staccare gli occhi dalla finestra:

«Anche a te?! Io sono qui a sbattermi mentre stai depressa per un cazzo di gatto e mi dici così? Anche a te, cosa, Ruth?!»

«Scusami» mormorò lei, sprofondando nel cappotto. Lui restò in silenzio, fissandola attraverso lo schermo; infine disse:

«Ti perdono. Sei ancora sconvolta. Non significa che sei autorizzata a comportarti di merda, ma ti perdono. E renditi più decente, cristo.»

Spense la videochiamata senza lasciarle il tempo di dire nulla, ma Ruth non pensava che ne avrebbe comunque avuto la forza: quei picchi di rabbia la confondevano e in quel momento, già stanca per tutto ciò che stava accadendo, l’aveva lasciata spossata. Sapeva che Phil faceva un lavoro stressante e i giorni in cui era alla sede principale erano i peggiori, e sapeva anche che lei era l’unica con cui si sentisse abbastanza libero per sfogarsi senza filtri; segnale di un legame forte tra loro, aveva pensato. Ma iniziava a esserne stanca.

La figura alla finestra era scomparsa come aveva fatto il sole dietro l’orizzonte: i lampioni della strada illuminavano l’atmosfera altrimenti immersa nel buio e Ruth si mise a studiare con placida curiosità la casa che da più di un anno apparteneva a lei e a Phil. Era l’abitazione più vecchia in cui avesse vissuto, una casa che aveva visto molte decadi e chissà quanti inquilini.

«Bella, vero?» fece all’improvviso una voce. Ruth voltò la testa: appena oltre la recinzione di metallo c’era una signora anziana che ricordava di aver già incrociato qualche volta e ogni tanto pure con Phil, che l’aveva classificata come la classica stramba del quartiere. A lei era sembrata amichevole; complici, forse, i tre cagnetti che le aveva sempre visto attorno.

Cogliendo l’espressione spaesata di Ruth, la sconosciuta sorrise ancora e accennò alla casa:

«Dopo che i vecchi proprietari se ne sono andati tutti di fretta temevamo che non ci sarebbe stato più nessuno.»

«Perché se ne sono andati?» domandò Ruth. La donna fece spallucce, prima di tirare a sé uno dei tre cagnetti che teneva al guinzaglio.

«Problemi al pavimento, ma da quello che ho visto li avete già risolti.»

«Scusi per il rumore dei lavori» disse subito Ruth; l’altra ridacchiò:

«Se ci vogliono, ci vogliono. Pensavo durassero di più. Di’, ma lei ha un gatto?»

«… ce l’avevo. È mancato da poco.»

«Oh, cara. Mi dispiace molto. Posso immaginare il dolore» disse la donna gettando uno sguardo affettuoso ai tre placidi cagnetti. Poi sembrò riscuotersi leggermente, come accorgendosi solo in quel momento dell’orario: dopo essersi salutate, la donna si allontanò con passo calmo dalla recinzione riprendendo il percorso lungo la strada. Ruth si era alzata e stava sgranchendo le gambe intorpidite per favorire la loro riattivazione, quando udì ancora la voce della donna:

«Speravo non avesse un gatto, ci speravo tanto. Speravo fosse un pupazzo quello che quel giovane ha lanciato dalla finestra la scorsa settimana. Ci ho sperato tanto.» 

Ruth era seduta sulla sua poltrona preferita. Il camino acceso, una coperta a difenderla dal freddo e una calda tazza di tè tra le mani. Non si mosse da lì quando Phil aprì la porta di casa e non rispose al saluto di lui. Bastò quello: dopo pochi secondi se lo ritrovò davanti, con il cappotto e le scarpe ancora addosso e la borsa a tracolla ben appesa alla spalla; gli occhi tradivano il ribollire che gli si muoveva dentro.

«Buonasera, eh. Che bel bentornato. Sto via due settimane e questa è l’accoglienza? Molto brava, eh, Ruth? Mi rispondi?»

Quando si rese conto che non avrebbe ricevuto repliche da lei se ne stette zitto, in attesa, fissandola con quegli occhi da pazzo. Poi Ruth parlò:

«So cos’hai fatto.»

Bastò un guizzo in quegli occhi folli. Lui corrugò la fronte tra lo scocciato e il confuso, ma bastò il guizzo che Ruth vide nei suoi occhi a darle la conferma.

«Sei matta. Cos’ho fatto? Posso saperlo?»

«L’hai lanciato dalla finestra. Lui si è spaventato ed è scappato in strada, ed è stato investito» rispose lei, senza collera nella voce: voleva solo che Phil la smettesse di dirle che si era immaginata tutto come ogni volta, come aveva sempre fatto.

«Stare da sola ti ha fatto uscire di testa.»

«Ti hanno visto.»

«Allora hanno visto male» fece lui e un altro guizzo, stavolta all’angolo della bocca, suggerì a Ruth che in quel caso lui non aveva mentito. Ispirata da chissà quale estro orrorifico una nuova, terribile ipotesi si palesò nella sua mente: che l’anziana donna non avesse visto un uomo che lanciava Rog in giardino. Era il cadavere del gatto quello che era stato sbalzato fuori, con tale rabbia da finire in mezzo alla strada, e un’automobile di passaggio aveva dato a Phil l’alibi perfetto.

E d’un tratto la realizzazione la colpì, facendole spalancare gli occhi con tale forza che li sentì lacrimare. Assurdamente quello attenuò il dolore per lo schiaffo improvviso che Phil impresse sulla sua guancia.

«Ma ti ripigli?! Cosa sono tutte queste cazzate? Chi te le ha messe in testa?»

Ruth non rispose. L’aveva turbata, sì, ma non al punto di spaventarla davvero: si sentiva in uno stato di quiete totale, come se avesse iniziato a lievitare in un liquido denso che la proteggeva da ogni cosa, da ogni emozione esterna. Continuò a fissare Phil; lei aveva scoperto la verità e tanto le bastava.

Per qualche motivo lo sguardo della donna sembrò confonderlo, al punto che si raddrizzò in fretta come se lei stesse scottando.

«Smettila» iniziò a dire l’uomo, muovendo una gamba indietro.

Poi accade tutto in modo curiosamente veloce.

Inciampò in qualcosa. Il modo in cui perse l’equilibrio ricordò a Ruth quando il vecchio Rog passava in mezzo alle loro gambe per strusciarsi, finendo per farli quasi incespicare. Mentre Phil cadeva, la sua testa batté su un angolo del tavolo vicino; allo stesso tempo la sua borsa a tracolla fece un giro a mezzaluna nell’aria e finì per incastrarsi tra il muro di pietra e il mobile della libreria.

Ruth restò seduta sulla poltrona mentre Phil agonizzava soffocando e non riuscendo a rialzarsi da terra. La botta che aveva preso in testa doveva essere stata ben forte, considerò Ruth: gli sarebbe bastato tirarsi verso l’alto per riprendere a respirare regolarmente. Invece lui si agitava e più si agitava più scivolava in basso, rendendo il laccio della borsa più fermo e stretto attorno al collo; i suoi occhi erano spalancati e sembravano fissi verso qualcosa, sul pavimento, accanto a lui.

Così Phil incontrò la morte, forse diretto a un giudizio nell’aldilà; il giudizio sulla terra era già stato stabilito da chi era in quel momento seduto accanto al cadavere dell’uomo, in attesa.

Spostò gli occhi felini, non più stanchi ma splendenti di intelligenza, sulla persona che aveva accompagnato la sua vita per tredici anni. Ruth ricambiò lo sguardo di Rog, pensierosa.

Si doveva mettere al lavoro. 

Era una bella mattina primaverile. I fiori stavano crescendo bene nel giardino luminoso e Ruth aveva deciso, com’era ormai sua abitudine, di godersi lì i caldi raggi del sole di aprile. Dopo essersi lasciata andare a un sospiro, fece scorrere lo sguardo sul suo piccolo angolo di paradiso: l’erba verde, i petali già sbocciati dei fiori rigogliosi, il cespuglio florido in un punto preciso del giardino. Sul marciapiede adiacente passò l’anziana vicina trascinata come sempre dai suoi tre cagnetti: fece un sorriso caloroso a Ruth, che lei ricambiò con gioia. Poi la giovane donna si soffermò ad ascoltare i suoni della natura in cui era immersa; inspirò l’aria fresca del mattino, la trattenne per qualche istante e, infine, sussurrò:

«Hai sentito?»

di Barbara Guarnieri

Illustrazione di Barbara Guarnieri

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