Era bella.
Lo dicevano tutti.
Apertamente o al sicuro nei propri pensieri; a denti stretti, per trattenere la rabbia di un desiderio carnale inappagato, o estorcendolo da labbra contrite dall’invidia.
Era bella e lui lo sapeva.
Lo era anche adesso, distesa con le mani candide giunte sul petto immobile, con le palpebre abbassate come fosse dormiente, composta nell’abito che aveva sfoggiato con orgoglio il giorno delle sue nozze, quando dinanzi al paese curioso aveva concesso il suo amore e la sua devozione a colui che ora ne piangeva la sconvolgente e prematura dipartita.
I grossi ceri ardevano intorno il feretro, regalando la loro calda luce alle pallide gote esangui della creatura morta, accendendo riflessi dorati tra i suoi folti capelli biondi, carezzando le labbra ancora amabili ma prive di colore.
Contriti i paesani si avvicinavano per donare alla bella defunta il loro ultimo saluto e per carpire alla morte corruttrice l’ultimo fuggevole sguardo all’amabile viso, che tanto in vita aveva acceso l’ardore degli uomini e il livore cieco delle donne.
La processione delle anime curiose proseguì per tutto il giorno, tra l’odore dei fiori recisi posti ai piedi della bara e quello della cera calda che lentamente si scioglieva, nel silenzio rotto da qualche singhiozzo sommesso e nello strusciare sul pavimento delle logore suole delle scarpe di quelli che entravano e uscivano.
Lui sedeva immobile su una vecchia seggiola traballante, le mani strette l’una nell’altra in cerca di conforto, immoto come la lapide che presto avrebbe eretto sulla tomba della sua amata. Rivolgeva il suo sguardo appannato e traboccante di lacrime a lei, che se ne stava lì, vicina, eppure ormai irrimediabilmente lontana, che pur conservando l’apparenza di una bellezza ancor vivida, nutriva già in seno la corruzione che presto avrebbe iniziato a divorare le sue carni perfette e l’avrebbe resa null’altro che polvere.
La luce del giorno si sciupò lentamente, ritirandosi in punta di piedi e lasciando pian piano solo le fiammelle votive a dar battaglia all’oscurità che si presentava.
Gli ultimi tardivi avventori si toglievano rapidamente i cappelli in segno di contrizione, lo portavano rapidamente a coprire il cuore per poi calcarlo nuovamente sulle teste. Un’ultima vigorosa mano calò sulla spalla di lui accompagnata da un borbottato sussurro di condoglianze che gli rimbalzò nelle orecchie e poi fu solo, con lei.
L’avrebbe vegliata per tutta la notte, scandendo le ore insieme alla pendola nell’altra stanza. Avrebbe pregato perché il mattino tardasse l’appuntamento con la sepoltura, avrebbe allungato la mano tremante fino a sfiorare il viso amato, contando le ciglia morbide e le piccole efelidi sparse sulle sue guance.
Avrebbe avuto il tempo per sognare ad occhi aperti un futuro in realtà già avvizzito, ma ancora intatto nella sua mente; avrebbe stretto la sua mano algida e l’avrebbe condotta sotto la quercia dove si erano confessati il loro amore. Lungo le vie del paese in festa le avrebbe comprato dolcetti e baciato le labbra zuccherine, e avrebbero avuto figli da crescere e amare, e sarebbero infine invecchiati e morti tenendosi per mano.
Fu il rintoccare perentorio della pendola a trascinarlo nuovamente al suo triste presente, tra le ombre ondeggianti sulle pareti e il fioco luccichio dei ceri, al cospetto della bara, che avrebbe custodito i resti della donna per sempre amata.
Trasse un profondo respiro e finalmente si alzò dalla sedia che aveva occupato per interminabili ore. Tutto in lui doleva e si accorse di non essersi mai sentito così esausto e dolorante; ma il tempo correva veloce senza intoppi, non gli avrebbe concesso proroghe, solo qualche altra ora di buio per fare quello che andava fatto.
Si accucciò sul pavimento gelido, sollevò il drappo che pendeva floscio fino a terra e allungò la mano, trovò ciò che cercava. Era fredda. La estrasse dal suo nascondiglio e sotto la luce morente delle candele lo salutò con un affascinante brillio.
Pianse per tutto il tempo che occorse.

Il corteo funebre sfilò mesto lungo la via principale del paese, le botteghe erano buie, i capi chini a cercare conforto nella polvere della strada, gli abiti scuri ondeggiavano scossi da refoli di aria gelida. I bambini, anche quelli più irrequieti, si stringevano alle sottane delle madri nascondendo i faccini sporchi nelle innumerevoli pieghe delle gonne.
Sotto un cielo cupo e rigonfio come una trapunta umida, il corteo giunse infine dinanzi la cappella che avrebbe accolto le spoglie mortali della defunta.
Tutti si arrestarono e presero ordinatamente posto attorno la bara, mentre il parroco si apprestava ad officiare l’estremo saluto.
Le parole iniziarono a fluire dalla bocca del parroco lambendo gli astanti, eppure su alcune delle facce presenti era come svanito il velo del dolore. Dal primo cittadino al medico, passando per il ricco fornaio e il becchino appoggiato ad una lapide fino al curato stesso, una strana luce faceva capolino dal fondo degli occhi e un sottile sorriso ne arricciava le labbra.
Lui teneva il capo chino, fremendo fin dentro le ossa, serrando gli occhi per non scorgere l’attesa negli sguardi biechi di quei presenti, che allungavano i loro artigli sopra le teste di coloro che erano al di sotto dei loro piedistalli.
Il cielo rumoreggiò feroce, tutte le facce si alzarono verso di esso constatando la veridicità della sua minaccia imminente. Il parroco si affrettò, mangiandosi le ultime parole e gettando in pasto alla folla ignorante un Amen frettoloso.
La bara fu deposta. Il torvo becchino pose la lapide e i fiori che accompagnavano il feretro, si chiuse il cancelletto in ferro battuto alle spalle e lasciò il cimitero il più in fretta possibile seguito da tutti gli altri.

Piovve.

Le lanterne si agitavano inquiete nella bruma esalata dalla terra bagnata, l’aria era intrisa di umidità, inzuppava gli abiti e gelava le ossa, ma non fermava le losche figure nere che si muovevano furtive tra le lapidi.
Giunti dinanzi il cancelletto si arrestarono mentre il capo fila posava la lanterna e faceva sferragliare delle chiavi; trovò quella giusta e infilatala nella sua serratura aprì i battenti, raccolse la luce e fece cenno agli altri di seguirlo.
Fece un rapido giro tutt’attorno al perimetro della cripta accendendo i ceri; l’ambiente seppur angusto si rischiarò e sembrò quasi accogliente.
Le figure, posate allora le rispettive lanterne, si fecero avanti, allungarono le mani nervose e divelsero la lapide posta a memoria della sventurata che ivi giaceva.
Estrassero la bara, infilarono i piedi di porco e fecero leva.
Il coperchio si spaccò in più punti, era legno da quattro soldi e non oppose resistenza. Tolsero le assi che ancora penzolavano e rimasero un istante a contemplare la bellissima creatura racchiusa al suo interno.
Eccoli lì, gli infami faccendieri, che tentarono di corrompere la virtù della giovane fanciulla quand’era in vita, ma ella, troppo pura e troppo bella, rifiutò ogni lusinga, perché al mondo non v’era nulla di più prezioso del dolce amore di lui.
Fu così che avvenne allora il misfatto.

Il vecchio medico diede al panettiere un veleno letale che egli impastò con sapiente bravura creando un’ostia di perfetta fattura. La diede al prete, vecchio lupo vestito da agnello, che la pose sulla lingua dell’ ignara creatura. Ella allora fu preda di infernali dolori e il medico sopraggiunto le chiuse gli occhi iniziando il lutto, disse che un male sconosciuto aveva preso possesso di quel dolce frutto. Il primo cittadino mise una fascia nera al braccio che poi pose sulle spalle del becchino per completare il piano in un abbraccio.

La cupidigia che ammantava le loro menti li spronò; lesti la tirarono fuori dal suo letto di eterno riposo, la adagiarono su una coperta preventivamente disposta sul pavimento e si fecero da parte mentre il vecchio medico si accucciava accanto la morta con in mano un grosso paio di forbici.
Quasi sbavando afferrò il colletto dell’abito bianco, ci infilò la punta affilata e iniziò a tagliare. La pelle bianca e perfetta della donna apparve, dapprima la gola, poi il seno, e a questo punto la smania prese il posto dell’accuratezza. Le mani rapaci si gettarono sul resto dell’abito, tirando, lacerando, incapaci di attendere oltre, divorati dal desiderio di poter finalmente godere del corpo che tanto avevano bramato ma che sempre gli era stato rifiutato.
Si avventarono infine sulla gonna strappando il tulle e le balze, trattenendo il respiro per l’eccitazione di quello che stavano per svelare, infine l’ultimo strappo. Rimasero pietrificati, con in mano la stoffa lacera, cercando l’uno negli occhi dell’altro la conferma a quanto appena visto.
La bella creatura esisteva fin sotto due dita l’ombelico, il resto del suo corpo era stato segato via.

La carrozza fendeva la notte a tutta velocità.
Lui sferzava i cavalli che sbuffavano nuvole di vapore dalle poderose nari, stringendo le redini fuggiva dal paese portando via con sé la rabbia, la vendetta e il resto di sua moglie.

di Serena Aronica

Foto di Urbex_Footsteps

Ti potrebbe piacere: