Al suo diciottesimo compleanno, Eugenio avrebbe esaudito il suo più grande desiderio: farsi amputare le gambe. Mamma non sarebbe stata d’accordo, come sempre, quando si trattava delle esigenze del figlio.
Del resto, Eugenio era l’unico e solo, la creaturella sopravvissuta dopo ben cinque aborti. Ida se ne stava in cucina da tre giorni, intenta a preparare prelibatezze per la festa di compleanno, alla quale avrebbe partecipato solo lei. Eugenio non aveva molti amici e quei pochi che aveva non frequentavano la sua
grande casa in campagna, principalmente a causa di Ida, che era eccezionale a far sentire chiunque ne varcasse la soglia persona sgradita, ma anche perché il casolare era lontano dalla fermata dell’autobus e nessun amico aveva la patente.
“Non corri, stamattina?” Erano le 10.05 quando Eugenio scese al piano di sotto, entrò in cucina e si versò il caffè con un goccio di latte nella tazza scheggiata.
“No, ma’, mi fa male la gamba.”
“Quale?” Risero entrambi.
Rimase per qualche minuto incantato a guardare le cipolle sminuzzate dal coltello a quarto di luna in mano alla madre. Provò un brivido così inaspettato da accendergli un’erezione. Si sedette sulla sua sedia personalizzata.
“Stasera festeggiamo il tuo ingresso nell’età adulta, tesoro mio.” La guardò voltarsi, i suoi occhi scuri come l’ebano lo penetrarono con ferocia. “Quindi vai a correre. Fai quello che devi. Con senso di responsabilità.” La lama a quarto di luna gli sorrideva, Ida no.
Uscì, controvoglia, per l’allenamento. Non aveva male alla gamba, era stato un tentativo di ribellione gentile. Avrebbe chiarito la sua decisione di smettere con le gare agonistiche a sua madre quella sera, dopo aver spento le candeline, dopo aver mangiato a forza la torta di grano saraceno che gli rifilava ogni anno, da che ne aveva memoria. Non gli piaceva più da tempo, ma i rituali erano importanti. Per lei.
Corse, come di consueto, rapido e col minimo sforzo. Sapeva di poter fare di meglio, ma non era più una priorità. Si sdraiò sull’erba alta, accanto al laghetto divenuto quasi una pozzanghera a causa delle piogge scarse. Allungò il braccio accarezzando con le dita ossute la superficie dell’acqua plumbea. Un paio di rane dagli occhietti vivaci spuntarono curiose. Si addormentò, cullato dal loro gracidare.
Il tavolo era talmente colmo di cibo che gli parve L’ultima cena. Mangiò voracemente, smanioso com’era di arrivare a fine pasto per poter parlare a sua madre.
“Tra dodici minuti nascerai, ragnetto mio.” Ida indicò col pollice l’orologio a cucù alle sue spalle, tra le ristampe di Caterina de’ Ricci atterra i figli di Babilonia e Martirio di san Pietro d’Alessandria: le 19.05.
“E di parto naturale, nientemeno. Tuo padre, che il Signore lo abbia in gloria, era sconvolto. Io ti faccio uscire da qui – indicò con foga la vagina – dopo ventotto ore di travaglio, così come sei, e lui sviene.
Lui!” Ida rise così forte che dovette trangugiare tutto il Sauvignon che aveva nel bicchiere per non soffocare col polpettone. Eugenio ne fu stupito, di solito sua madre mangiava e beveva in modo più signorile. È molto emozionata, pensò.
Arrivò il momento della torta e si commosse nel vedere che la madre era riuscita nell’impresa di infilarci diciotto candeline.
“Esprimi un desiderio.” Lui finse di pensarci, poi soffiò. Era giunto il momento. Aveva ufficialmente la maggiore età e il diritto di fare del suo corpo ciò che voleva. Recuperò il fiato perso e parlò a sua madre come non aveva mai fatto prima. Pianse anche un poco. Lei lo lasciò parlare, senza interromperlo, come non aveva mai fatto prima. Solo alla fine disse: “Domani ti faccio operare.”
Eugenio scoppiò a ridere, mentre piangeva. Sua madre, per la prima volta, gli aveva concesso di essere felice.
Eugenio era nato con quattro gambe. Molte mutazioni, tra umani e animali, si erano sviluppate per un connubio di cause: farmaci non autorizzati dall’AIFA, droghe sintetiche, prodotti chimici dispersi nell’ambiente e assorbiti dall’organismo. Non era l’unico, non per niente gareggiava con la Federazione
AracnoPride. Ma lui di gambe ne voleva solo due. E non voleva più correre.
Quando riaprì gli occhi, dopo l’intervento, fu il volto di sua madre che incontrò per primo. Era radiosa, come la Venere di Botticelli.
“Non… non sento niente, ma’…” I suoi occhi si fecero piccoli e cattivi, il suo sorriso luccicava come una lama appena affilata.
“Piccolo mio, ho forse capito male il tuo desiderio?”
Eugenio scaraventò via il lenzuolo: di gambe non ne aveva più.
“No, ma’… Grazie.” rantolò. Almeno avrebbe smesso di correre.
di Kara Lafayette
Foto di Giulia Massetto