[Linda, 2025]

Ho la gola secca.
Stasera ho bevuto solo acqua e un tè scadente, eppure la bocca mi sembra impastata come dopo una nottata di gin economico. Il tavolo della mia stanza è pieno di cianfrusaglie: un teschietto di gesso comprato a un mercatino goth, un portacandele di metallo annerito, la mia collezione di tarocchi sparpagliata a caso. Al centro, un vecchio diario rilegato in una pelle scura e scricchiolante, preso alla biblioteca del mio paese. Ho dovuto insistere per averlo in prestito.
Forse la bibliotecaria era solo di malumore per fatti suoi, ma non credo: quando le ho chiesto di sfogliarlo, ha storto la bocca, come se stessi chiedendo di strofinare i piedi sul suo cuscino preferito. Era come se non me lo volesse dare.
Ma adesso eccolo qui, davanti a me. Lo apro e l’odore che mi investe è quello della muffa antica, dell’umidità annidata in pagine così vecchie che non mi stupirei se ci trovassi dentro l’ombra di un qualche vermetto fossilizzato. Sfioro la carta con la punta delle dita, cercando di non incrinare quei segni d’inchiostro sbiaditi. Sembra quasi polvere nera, posata lì da mani tremanti secoli fa. C’è qualcosa, nella forma delle lettere, che mi nausea. Non capisco subito perché. Mi sale su un conato silenzioso, quasi un gorgoglio. Inspiro piano, le narici pizzicano, e mi forzo a leggere.
Le parole si aggrovigliano in una lingua che non riconosco del tutto: strascichi di latino sgrammaticato, termini francesi deformi, simboli che potrei trovare solo nei miei libri di stregoneria più strambi. Mentre leggo, la pelle dell’avambraccio mi si accappona. Sento uno sfarfallio dietro la nuca, un formicolio insistente. Mi sollevo i capelli, grattandomi, quasi mi aspettassi di trovare un ragno appollaiato lì dietro.
Fuori dalla stanza sento le risate delle mie coinquiline. Televisione, Netflix, snack, la normalità più rassicurante. Ma qui, nella penombra della lampada da scrivania, capisco che c’è qualcosa che non va.

[Babette, 1613]

La pietra della cella è viva, odora di marcio e ferro arrugginito. Io sono rannicchiata, ginocchia contro il petto, catene attorno ai polsi che mi segano la carne. Sanguino, poco ma in modo costante. Ho il mento premuto sullo sterno, la testa reclinata, e sento il mio stesso puzzo: sudore, terra, urina.
L’ultima volta che mi hanno portato da mangiare era una ciotola di acqua sporca e croste di pane ammuffito. Meglio così. Meno cibo da vomitare quando i crampi della rabbia diventano insopportabili.
Tengo stretto contro il corpo il piccolo grimorio, infilato tra le pieghe della veste strappata. Le guardie non lo hanno mai notato, troppo occupate a ridere dei miei capelli sporchi, della mia pelle color sabbia e a sputarmi addosso. Io non le guardo. Se le guardo, mi riempiono di botte, dicono che le mie pupille portano il marchio del demonio. Forse è davvero così. Non mi importa.
Domani mi bruceranno in piazza, lo so. Ho visto le cataste di legna dalla fessura nel muro, ieri. Sembrano lingue di serpente attorcigliate una sull’altra, pronte a diventare fiamme e a divorarmi i piedi, le cosce, le viscere, fino alle ossa.
Ma non starò lì a farmi annientare senza combattere. Questa notte userò l’ultima pagina del grimorio. Ho soltanto un nome per quella magia così violenta e oscura: il Salto. Non ne conosco l’esatta natura, la mia maestra non ha avuto il tempo di spiegare. «Usa il sangue» ha detto, prima che la trascinassero via. Di sangue ne ho in abbondanza. E ho anche la volontà. Sento la carta contro la mia pelle, raspa peggio di un artiglio. Mi tocco il labbro con i denti, poi mordo, forte, fino a spaccare la pelle e sputare un filo rosso sulla pagina. Le lettere reagiscono come se bevessero la mia essenza, si anneriscono, vibrano nella penombra. La testa mi gira, ma il dolore al labbro è niente rispetto a quello dei polsi segati dal metallo.
Tremo, sussurro parole antiche che sento di conoscere da sempre, come se fossero nel mio sangue da generazioni. Ogni suono è un ago che mi punge la lingua, ma continuo. Continuo finché non sento qualcosa cedere e un filo invisibile si tende oltre queste mura.

[Linda]

Il diario mi stordisce. Mi sembra di sentire la sua voce. Non è possibile, certo. Eppure, ora il formicolio dietro la nuca è più forte. Immagino catene, fango, fuoco. Vedo, nella mia mente, un viso sporco di terra, occhi scuri simili a pozzi senza fondo. Mi scosto dalla sedia, indietreggio e vado a sbattere contro lo scaffale dei libri. Uno cade, colpisce il pavimento con un tonfo sordo. «Cazzo» sussurro. Che mi prende? Sono solo suggestioni. Ho letto troppi testi bizzarri.
Mi passo la lingua sulle labbra. Sapore di rame. Apro la bocca e controllo la lingua allo specchio: c’è un minuscolo segno rosso. Mi sarò morsa senza accorgermene. Sento un rumore strano, un lamento soffocato che rimbomba nel cranio. No, sono le mie coinquiline, ridono davanti alla tv per qualche scenetta idiota. Giusto? Eppure suona diverso. Più cupo, più disperato.
Torno al tavolo, ancora confusa. Il diario è ancora lì. Le lettere sembrano più scure, come se l’inchiostro antico si fosse appena asciugato. Lo sfioro di nuovo, stavolta con cautela. Mi pare di sentire un calore lieve, una vibrazione. No, è impossibile. Ma le dita formicolano, come se una scossa minima mi attraversasse i nervi. Mi sento strana. A disagio. È tardi, dovrei uscire a prendere una boccata d’aria, magari bere qualcosa in un locale. Non lo faccio quasi mai, ma stasera…
Stasera, perché no?

[Babette]

Il mio respiro è un rantolo. Le parole mi hanno svuotata. Ma sento una presenza, un varco nella mente. Non sono più soltanto nel mio corpo spoglio e maltrattato. C’è un altro corpo, distante, ma percettibile come uno specchio d’acqua che riflette il mio viso. Le mani di lei – sento che è una donna – sono morbide, non hanno calli. Vedo, attraverso palpebre non mie, un tavolo, una luce che non riconosco, colori troppo vividi. Sento odore di pulito, un profumo così forte e sconosciuto. Com’è possibile? Dove sono? Ci sono riuscita? Non posso parlare, non posso controllare i suoi movimenti, ma posso insinuarmi un po’ di più. Concentrarmi sulla sensazione dei suoi piedi che premono sul pavimento, del tessuto dei suoi abiti che sfiora la pelle. Non sono cenci laceri, non sono tele ruvide. Sono materiali ignoti, lisci, sensuali.
La mia bocca fa una smorfia di piacere. Assaggio con la mente la sua lingua. Ha un sapore neutro, sa di acqua pulita, molto diversa dalla mia che ha il gusto della disperazione e del ferro. Ma lei è spaventata, lo sento. Il suo cuore batte più forte.
Cerco di spingerla verso un altrove. Perché? Non lo so, mi serve tempo. Devo capire. Domani mi bruciano. Devo nutrirmi di questa vita come di un frutto proibito. Io voglio sentire ancora, toccare, gustare. Voglio sapere com’è vivere senza catene.

[Linda]

Stringo la maniglia della porta di casa, esco. Nessun motivo logico. Io, che passo le serate a divorare vecchi libri horror o tomi pieni di polvere, esco senza meta. C’è aria di pioggia, un odore di asfalto umido e rose malate si alza dal cortile del condominio. Mi pizzica la gola. Sento, in fondo alla pancia, una strana eccitazione, la stessa che mi buca lo stomaco quando riesco a concedermi un appuntamento galante. Ma con chi?
Cammino, i lampioni sputano un giallo sporco sulla strada. La mente si riempie di immagini estranee. Ciotole d’acqua fetida, catene arrugginite. Odore di legno bagnato. E poi di colpo, musica lontana, un bassofondo che sale da un pub un paio di isolati più in là. Normalmente sarei rimasta sulla soglia, sbirciando i tizi dentro, magari facendo dietrofront. Ma stasera no. Stasera qualcosa mi spinge a entrare, a mescolarmi nella folla. La mia lingua formicola, come se un sapore nuovo stesse per esplodere tra i denti.
Apro la porta del locale. Luci soffuse e colorate, un odore misto di luppolo e sudore fresco. La mia testa gira un attimo, forse per l’afa o per la strana tensione che sento tra le costole. Non appena mi spingo nella folla, mi pare di sentire un sussurro dentro la mente, ancora più leggero di un soffio: “Sì… assapora… continua…”

[Babette]

Oh, per Lilith.
Cos’è questo frastuono ritmato? Una musica che mi vibra nella carne, anche se non è la mia vera carne. Sento calore, corpi vicini, risate. Il cuore di questa donna batte più veloce, e il mio spirito si tende come un arco. Lo so, per possederla del tutto devo sacrificarmi. Ormai l’ho capito. È ovvio. Tutte le magie oscure richiedono un sacrificio degno. Devo farmi fuori, qui e ora, in questa lurida cella, per rinascere in lei. Se voglio provarci, almeno. Lo desidero, ma non sono pronta. Sono una strega, sì, ma scorre sangue umano in me ed è tutta umana la paura sorda che ho della morte. 
Funzionerà? Voglio prima assaggiare ancora un po’ di questo mondo. Voglio capire che sapore ha la libertà prima di spiccare l’ultimo salto. Se nulla dovesse funzionare e tutto dovesse andare al demonio, voglio almeno mordere la vita, prima del grande buio.
Mi concentro. Lei beve qualcosa, sento un liquido bruciare in gola, un sapore pungente, alcolico. Gola calda, fronte sudata. È meraviglioso. Non so cosa sto bevendo, ma sa di vita. È come succhiare nettare da una ferita aperta, ma senza dolore. Mi allungo, tiro i fili invisibili che mi legano a lei. Tra poco dovrò fare la scelta estrema, ma non ora.
Adesso voglio ballare.
Voglio sentire i suoi muscoli muoversi, le sue gambe, il petto che si solleva a ritmo di quella musica sconosciuta. Dentro la cella, sputo a terra e rido, un rantolo spezzato. Presto sarò del tutto libera. Presto mi vestirò della sua carne, sarà il mantello nuovo che sfoggerò con orgoglio.

[Linda]

Il bicchiere che stringo tra le mani scivola leggermente, la condensa mi bagna le dita. Dentro c’è un liquido ambrato, frizzante. Non ricordo se l’ho ordinato io. Forse qualcuno me l’ha offerto, forse sono stata io stessa a chiederlo.
Non lo so. La testa mi rimbalza, mentre la musica pompa nelle vene con la stessa prepotenza selvaggia di una siringa di adrenalina. Vedo corpi che si strofinano, sento l’odore di pelle calda e profumi chimici. Mi ritrovo a sorridere senza motivo, la lingua vibra, qualcosa da dentro sta cercando di uscire, le mani tracciano sentieri e mappe sui miei fianchi, del tutto estranee alla mia volontà.
Ogni tanto torno in me. “Che cazzo sto facendo qui?” mi chiedo, ma la voce interna è debole, un filo di rasoio sottile. “Ho un esame tra due giorni,” mi dico. Di solito passerei la sera a studiare fino a bruciarmi gli occhi, non a sculettare tra sconosciuti in un bar saturato di bassi e di luci colorate. Eppure sono qui, e non riesco a fermarmi. È come un guinzaglio invisibile che mi strattona la carne dall’interno.
Mi porto la cannuccia alla bocca, sorseggio. Il sapore è pungente, dolciastro e metallico. Mi pare di sentire, per un attimo, non zucchero né alcool, ma sangue. Sputo e sento un gorgoglio nella gola, tossisco. Una ragazza accanto a me mi guarda, sorpresa. «Tutto ok?» chiede. Muovo la testa su e giù. Rispondo con un cenno, come a dire “Sì, sì, va tutto benone”. Ma non è vero. I miei tendini si espandono con la stessa irrequietezza di corde bagnate, il cuore è una biglia impazzita dentro la cassa toracica.
Dentro, qualcosa ride. Una risata che non è mia. Un alito di vento ghiacciato mi scivola tra le costole.

[Babette]

La pietra mi morde la schiena, ma non la sento quasi più. Il corpo è intorpidito, la fame mi ha trasformata in un’eco grossolana e primitiva di ciò che ero. Tuttavia, il mio spirito è sazio, in qualche modo. Sto bevendo attraverso di lei, la ragazza di un altro mondo. Non so chi sia, non so nemmeno il suo nome, ma questo non ha importanza.
Quando avrò finito, mi chiamerò con il nome che voglio. Sì, perché voglio vivere. Non voglio bruciare come un ceppo, in balia della folla urlante. Non morirò da vittima, non lascerò che la mia carne venga divorata dal fuoco. La mia morte sarà la chiave. Un rituale, non un supplizio.
Trattengo il fiato, lascio che le catene stridano. La pagina del grimorio mi si è incollata contro la pelle, inumidita dal mio sangue secco. Devo fare presto. All’alba, mi trascineranno fuori. Forse dovrei farla finita ora, sgozzarmi con un chiodo strappato dal muro, infilarmi un frammento di pietra nella carotide. Ma non ancora. Voglio sentire un altro sorso di vita dal suo corpo prima di staccarmi dal mio. Voglio che la sua anima si ammorbidisca, si arrenda. Devo spingerla a vivere esperienze che la stordiscano, che la confondano, così che quando tornerò a prendere possesso di lei, non opponga resistenza.
Chiudo gli occhi, mi concentro. La sento ancora. Percepisco la sua gola stretta dalla tosse, il petto che si agita. Ha bevuto qualcosa di forte. Bene, ubriacala, confondila. La renderà più debole quando dovrò strapparle l’anima.

[Linda]

Mi stacco dal bancone per andare in bagno, il legno appiccicoso lascia una sensazione sgradevole sui miei gomiti. Mi infilo tra la folla. Sento mani che sfiorano i miei fianchi, forse per sbaglio, forse no. Normalmente avrei ritratto il corpo, avrei attraversato la sala con passi rapidi e la testa bassa. Ora, invece, lascio che le dita scorrano, che gli sguardi mi attraversino. Ogni respiro è denso, pieno di corpi umani, di sesso e promiscuità.
La musica è così forte che mi rimbalza nel cervello, martellate ritmiche che spengono i pensieri. Mi muovo, e con me si muove qualcosa di antico, un’ombra d’altri tempi. Scivolo sulle piastrelle sporche, il drink trabocca, gocce di alcool finiscono sul pavimento, come minuscole lacrime d’ambra.
Chi sono? Chi sono davvero? Perché ho voglia di mordere il bicchiere fino a sanguinare? Penso a casa, ai miei tarocchi ammuffiti, al vecchio diario. Per un attimo visualizzo la copertina di cuoio, le lettere sbiadite che mi fissano, del tutto simili a occhi senza tempo. Potrei tornare indietro adesso, scappare in strada, farmi lavare dal vento notturno.
E invece no. Rimango. Qualcosa mi stringe il cuore. Mi fermo solo un secondo davanti allo specchio del bagno del locale. È uno specchio sudicio, opaco, eppure vedo chiaramente la mia faccia: occhi lucidi, guance arrossate. Ma dietro di me… dietro di me sembra esserci una sagoma, un velo scuro. Sbatto le palpebre, e non c’è più.

[Babette]

Le guardie passano fuori dalla cella. Sento i loro stivali sul pavimento, il raschiare di ferro su altro ferro. Parlano a bassa voce. «Domani la bruciamo. La sento puzzare già di morte» ride uno di loro.
Non reagisco. Mi limito a inspirare piano, riempiendomi i polmoni di odore di muschio e pipì. Tanto, presto non sarò più qui. Io sarò altrove, in un mondo con luci misteriose e bevande sconosciute. Un mondo dove posso entrare in un luogo pieno di gente e non venire subito additata come mostro.
Le mie braccia tremano. Il grimorio, caldo contro la carne, mi dà forza. Sento che lei è debole. È sorpresa, confusa. Ottimo. La catturerò mentre è stordita.
Stringo le catene, mi ferisco i palmi. Un rivolo di sangue mi scende tra le dita. Lo guardo, ipnotizzata. Sangue vivo, mio, ma presto non mi apparterrà più. Presto abbandonerò questa carcassa martoriata e sarò il serpente che lascia la sua vecchia pelle.
Le mie labbra si incurvano in un sorriso. L’alba non mi vedrà urlare. L’alba mi vedrà rinascere.

[Linda]

All’improvviso mi assale una nausea feroce. Mi piego sulle ginocchia, in un angolo del locale. Un tizio ubriaco mi chiede se sto bene, lo ignoro. Faccio un respiro, poi un altro. Mi sembra di sentire odore di carne bruciata. Ma non c’è alcun fuoco, solo luci intermittenti e puzza di birra.
Devo andarmene. Mi sollevo, aggrappandomi al muro. Esco da una porticina sul retro, un vicolo buio. L’aria è più fredda e odora di spazzatura, ma almeno respiro. Mi sgorga saliva tra i denti, quasi vomito. E lì, tra i cassonetti, mi sembra di vedere qualcosa. Una donna accovacciata, con i capelli sporchi, gli occhi neri. La vedo o la immagino? Tendo una mano, ma la figura scompare.
La testa mi duole come se qualcuno stesse scavando con un punteruolo. Sento la voce nella mia mente farsi più insistente.
“Cedi. Tu non capisci. Cedi!” Cedi a cosa?
La paura mi sale alla gola. Mi mordo il labbro, sento il gusto ferroso del sangue. Un minuscolo taglio, niente di che. Ma mi basta questo per sentire le viscere contrarsi. Chi c’è dentro di me?

[Babette]

È il momento. Lascio che le catene mi scavino ancora un po’ nella carne. Non sarà una morte timida e silenziosa, mi servirà un colpo secco. Guardo intorno nella cella. C’è un chiodo sporgente, arrugginito, nel muro a sinistra. Se ci sbatto contro la gola con abbastanza forza, richiamando a me la stessa fame di libertà che spinge le volpi a staccarsi a morsi le zampe incastrate nelle trappole, dovrei riuscire a farmi un taglio profondo. Il sangue sgorgherà, soffocherò, ma al culmine del dolore la mia anima si trasferirà del tutto. Lo so. È il Salto.
Non ho altra scelta. Se aspetto, all’alba sarò cenere. Respiro, tremo, poi apro le labbra screpolate: «Tu, ragazza, mi senti?» sussurro nel vuoto. Non posso sapere se mi sente davvero, ma ho l’impressione di essere in qualche modo, ora, nella sua testa. Vivo il suo terrore. E questo mi piace. Mi fa sentire potente.
Ho lo stomaco annodato. A quattro zampe, mi trascino verso il chiodo. Le catene tintinnano, il ferro stride. Ogni osso nel mio corpo protesta, ma non m’importa. Un ultimo sforzo, un altro assaggio di libertà.

[Linda]

Le voci nella mia testa si fanno più nitide. Un sussurro antico risuona sulle pareti del mio cranio. Una lingua che non capisco. Mi vengono in mente parole latine, strani incantesimi letti in vecchi libri. Sento un brivido gelido scivolare dalla nuca fino al coccige.
Inizio a capire: il diario non era un banale oggetto antico. Conteneva un legame, un rituale. Qualcuno – una donna? – sta cercando di entrare in me. Sento il suo desiderio: vuole la mia vita, la mia pelle, la mia libertà. Vorrei urlare. Apro la bocca, ma dal vicolo esce solo un gemito strozzato.
No, non voglio cedere. Non voglio farle spazio. Questa è la mia vita. Sento una spinta, una pressione. Le ginocchia cedono, striscio contro il muro sporco. Un topo corre tra i sacchi di spazzatura. L’odore di marcio mi riempie le narici. Voglio resistere, ma la testa mi scoppia. Le unghie graffiano il cemento. Ho la sensazione che, se non cedo, la mia testa esploderà come un frutto maturo.

[Babette]

Ho il mento appoggiato alla pietra, la lingua penzoloni come un cane moribondo. Il chiodo è lì. Arrugginito, maligno. Uno strappo, e me ne andrò. Ho paura, ma la paura mi fa ridere. Meglio decidere la mia morte che subirla.
Chiudo gli occhi, visualizzo l’altro corpo, il suo calore, la sua pelle morbida, la lingua senza sapore di muffa, i vestiti comodi, il mondo ignoto da esplorare. Visualizzo i suoi occhi lucidi, la sua confusione. Presto tutto sarà mio.
Raccolgo le forze, spingo il collo contro il chiodo, premendo con violenza. Sento la carne lacerarsi, un dolore così acuto che mi paralizza. Il sangue scorre. Non urlo. La mia voce si perde in un rantolo. Sento il calore denso colare sul petto.

[Linda]

Un dolore assurdo mi inchioda la gola. Forse nel drink galleggiava uno stuzzicadenti e io l’ho ingoiato senza accorgermene? Deve essere per forza così. Oppure qualcuno mi sta pugnalando da dentro. Grido, o almeno credo di gridare, ma nel vicolo non c’è nessuno, nessuna risposta. Non riesco più a respirare. Porto le mani al collo, mi sembra di sentirlo aprirsi, ma non c’è ferita. Solo un dolore fantasma, un dolore che appartiene a qualcun altro.
È come se una seconda spina dorsale, nera e antica, si inserisse nella mia, sgretolando la mia identità.
Le gambe tremano, cado in ginocchio. L’odore dei rifiuti assume un carattere più dolce, più familiare. Le luci della città sfarfallano, diventano torce tremolanti nella notte. Passato e presente si sovrappongono. Vedo la cella, vedo il chiodo, vedo il sangue. Vedo anche me stessa, come se fluttuassi sopra la scena.
E poi, di colpo, il dolore si attenua.
Qualcosa si allenta nella mia testa. Mi affloscio, ansimando.

[Babette]

Buio.
Un attimo di nulla, un vuoto che sembra eterno. Poi uno strappo. Mi sento strisciare sotto la pelle dell’altra. I suoi ricordi sono lì, impalpabili. Un letto caldo, una scrivania, libri nuovi e antichi, tarocchi.
Giocattoli, vestiti puliti. Una risata con le amiche. Sapori incantevoli, odori esotici. Un’infanzia sicura e amorevole. Tutto a portata di mano.
Mi innesto nella sua carne. Mi sento già più solida, il dolore al collo scompare. Ora il mio corpo è intatto, sano, forte. Le catene, il fango, il chiodo arrugginito: sbiadiscono come un sogno cattivo.
Io sono in piedi in un vicolo, con addosso abiti strani, mai visti prima. Posso respirare a pieni polmoni, l’aria è mia. Sento i muscoli rispondere ai miei comandi. Fletto le dita, passo la lingua sulle labbra. Nessun sapore di morte e marcio, solo il retrogusto di birra. Un paradiso rispetto a prima.
Sorrido.
O forse rido. Una risata bassa, piena di soddisfazione.

[Linda?]

Cerco di urlare, ma non ho più una bocca. Percepisco la mia coscienza, da qualche parte, ma è rinchiusa in una stanza senza porte. Sento la mia voce rimbalzare tra le pareti del cranio, un cranio che non controllo più. Lei si muove con la mia carne, ride con i miei polmoni, guarda con i miei occhi.
«No!» vorrei dire. Ma è inutile.
Qualcosa in lei, in me, gode di questo silenzio. So che non sono morta, non del tutto. Sono qui, prigioniera. Vorrei piangere, ma non ho lacrime. Non ho mani. Sono diventata un’ombra nella mia stessa mente.

[Babette, 2025]

Mi gratto la nuca, calpesto una lattina vuota nel vicolo. Questi tessuti sono così strani, ma comodi. Cammino a piccoli passi. Mi trovo in un mondo di cui non capisco nulla, ma questo non è un problema. Ho tempo, ora. Tempo per imparare. Tempo per godere, per scoprire.
Lascio il vicolo, mi mischio alle poche anime che vagano nella notte. Le luci artificiali mi incantano. Ho voglia di ridere, di assaggiare ogni cosa. Chi potrà fermarmi?
Sento un flebile piagnucolio dentro la testa, la sua voce che implora. Non mi disturba. Anzi, mi fa compagnia. È fatta: ho sconfitto il rogo, ho superato l’inganno del tempo, ho ottenuto una nuova vita. Ho fatto il Salto.
Entro in una locanda ancora aperta. No, un bar. Qualcosa dentro di me gracchia quella parola così buffa. È la parola giusta. Sorrido all’uomo dietro il bancone. Chiedo da bere con una voce che una volta non era mia. Ora lo è. E mentre sorseggio, penso al fuoco che domani avrebbe dovuto bruciarmi. Che ne sarà delle cataste di legna senza di me? Forse bruceranno un fantoccio vuoto. O forse cercheranno un cadavere. Chissà. Non ha importanza. Io sono qui, viva, solida, immortale nel presente.
E questo, per me, è tutto ciò che conta.

di Martina Melgazzi

Immagine ad uso gratuito

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