Vi racconterò, figli miei, di come tornammo a vivere e a crescere sani e forti dopo quel giorno.
Prima che arrivasse e li trovasse impreparati (malgrado fosse da secoli, se non millenni che ne parlavano), lo chiamavano Giorno del Giudizio o Apocalisse, ma nulla di questo era. Si trattava della resa dei conti, forse, o di una semplice risposta a millenni di soprusi e delitti.
Rocce, le figlie più indipendenti e robuste; piante, le figlie delicate ma sagge; fiumi e laghi con le vostre vite abitudinarie e i miei amati, irruenti figli, i mari e gli oceani, ricordiamo per chi allora non era ancora nato o per chi comincia a essere tanto vecchio da averlo dimenticato.
Ma mi chiedo, come si può dimenticare?
Bruciavano gli incendi nelle verdi foreste di tutto il mondo, bruciava la mia pelle per colpa loro, per la loro negligenza, per la loro indifferenza. Non credo alla malvagità, perché tutto è quello che deve essere in nome della vita, quindi anche della morte. Non erano cattivi, perché la cattiveria non esiste, solo più egoisti degli altri essere viventi a cui avevo dato la possibilità di esistere.
Un poco di egoismo fa parte della sopravvivenza. Ma l’eccesso, come ogni sovrabbondanza, non può che essere dannoso. Fu il loro egoismo a portarli alla rovina e lo avevano sempre saputo, ma avevano peccato di superficialità.
Avevano predominato per lungo, lunghissimo tempo, dacché erano comparsi, evolvendosi da un esemplare piuttosto sagace che per primo aveva capito come sconfiggere i predatori, diventando predatore a sua volta. Loro la chiamavano intelligenza, io lo chiamo istinto di sopravvivenza che divenne avidità.
Poi, il tempo trascorse ed essi dimenticarono le proprie radici. Dimenticarono l’importanza di un nocciolo e di un insetto e la dignità di tutti gli animali che erano vissuti e cresciuti con loro.
Dimenticarono, nei fatti, di essere animali come gli altri e di essere figli miei.
Come si può dimenticare la propria madre? Come si possono ignorare i propri fratelli con cui sussistono più somiglianze e differenze?
Cominciarono a sfruttare tutto ciò che riuscirono a prendere con le loro piccole, agili mani, senza pensare che un giorno sarebbe finito, se non avessero pensato con lungimiranza.
Volevano sempre di più, anche quando cominciarono a vedere con i loro stessi occhi gli evidenti problemi di scarsità di risorse, ma anzi, presero ad ammalarsi orribilmente, decimandosi. Ma ancora non lo capirono.
Uccisero specie in uno schiocco di dita, trivellando, falciando, macellando, avvelenando persino se stessi. Incredibilmente, rimasero in vita, ma persero la bellezza che li aveva circondati.
Diedi i primi segnali con alluvioni e virus, con infestazioni e siccità, distruggendo i loro tentativi di arrivare al cielo e di scendere nelle profondità sempre più buie del suolo e degli abissi, ma i miei avvertimenti vennero accolti non come suggerimenti, bensì come attacchi a cui avrebbero reagito con sempre maggiore violenza e anche allora vissero, pagando lo scotto con una rabbia indomabile e una folle paura nei confronti di tutto ciò che non fosse sotto il loro diretto controllo.
Consideravano la vita intorno a loro una guerra nei loro confronti e si sarebbero ribellati a ogni costo, senza comprendere che per sopravvivere avevano bisogno di me e del resto della progenie.
Fumi neri coprirono il cielo che gli antenati avevano osservato per trovare risposte sul mondo oltre loro stessi. Non videro più le splendide luci delle stelle e faticarono a riconoscere il sole in quella nube luminosa. La loro abitudine di cibarsi di esseri senzienti, considerati inferiori per caratteristiche differenti dai canoni da essi stabiliti (come un linguaggio diverso o un paio di zampe in più), arrivò al cannibalismo di chi era inutile e fuori norma all’interno della loro società altamente selettiva. Prima avevano mangiato suini, ovini e bovini, poi anche alcuni rettili, mentre tra mammiferi vi erano fazioni favorevoli a includerli nella dieta, altri che li consideravano loro pari: finché alcuni mammiferi particolarmente graziosi vennero amati, ma i loro stessi figli deformi vennero macellati e venduti. Continuarono ad ammalarsi, ma la colpa continuava a essere mia e loro dovevano sconfiggermi e al contempo salvarmi dai loro errori.
Mentre molte femmine furono relegate al ruolo di custodi delle case e degli individui ancora giovani o poco più che neonati, altre vennero scelte come fattrici finché il loro corpo avesse potuto reggere il peso di continue gravidanze e le violenze della parte maschile.
Ma io non avevo bisogno di essere salvata né volevo entrare in una guerra con cui non avevo nulla a che vedere. In passato ho distrutto per ricostruire, posso continuare a farlo per l’eternità. Non ho bisogno di loro per vivere, sono la sola responsabile e padrona di me stessa e posso eliminare senza esitazioni colui che sia mio nemico e che metta in pericolo la vita. L’ho già fatto in passato e posso continuare a farlo.
Un giorno, al limite del parossismo, fra incendi e macellazioni, morti asfissiati e abbandoni del branco, fu esposta sul ciglio di un vulcano una giovane donna.
Era di un bianco abbagliante, il crine color dei fiori, ed era una cosina tanto piccola e innocua da non poter resistere alla sfida definitiva. Mi domandai perfino come fosse riuscita a sopravvivere fino ad allora.
In quei giorni, infatti, il grande Vesuvio si era risvegliato, vomitando fumo e cenere. La terra sotto di loro aveva preso a gonfiarsi e a spaccarsi, talvolta a scuotersi persino. Le acque intorno avevano cominciato a scaldarsi improvvisamente e l’aria odorava di zolfo. La maggior parte di coloro che vivevano alle pendici del vulcano se n’era andata via, ma altri erano rimasti perché quella era casa loro.
Io sono una casa per chi mi rispetta, non per chi mi attacca, avrei voluto dire, ma erano fermamente convinti nella loro innocenza e questo è sempre stato uno dei loro più grandi difetti.
Forse, credevano in un’offerta sacrificale che avrebbe placato la mia ira.
No, non servirà a nulla, pensai. Io non sono nemmeno adirata, se per questo, al limite solo delusa e l’ennesima morte non sarà di nessuna utilità a nessuno, bensì sarà soltanto l’ultimo inutile omicidio.
Vesuvio, figlio mio tra i primi che ho creato, li avrebbe distrutti e sarebbe stato solo l’inizio.
Decisi allora che li avrei colti in fallo e che la loro fine sarebbe stata non solo cruenta, ma assurdamente ironica.
Perché potevano prendere in giro se stessi, lo avevano fatto tanto a lungo da non essersi nemmeno resi conto di ciò, ma non avrebbero più giocato con me e con la vita.
«Vi prego, vi prego, non servirà a nulla!» gridava lei, mentre l’aria calda le sferzava il vestito sulle gambe magre.
Più lontano, un folto gruppo di suoi simili la ignorava. L’avevano incatenata a un palo conficcato nella terra e se ne stavano andando.
«E se non servisse?»
«Ne abbiamo altre come lei, tanto ormai stanno diventando sterili e sono troppo fragili per lavorare. Moriranno presto, comunque.
Mentre quella povera creatura urlava e piangeva penosamente, in bilico sulla bocca del vulcano, dal fondo del cratere sorse il mio capolavoro.
Vesuvio, quello che non avevano mai visto perché dormiente da millenni, ma già in passato un solo sbuffo era bastato per cambiare la loro storia e il mondo per come lo conoscevano, proruppe in uno sbadiglio più simile a un cupo gorgoglio. Sbuffò altro fumo nero dalle narici umide e si alzò lentamente, ricordandosi pian piano come ci si alza. Con le zampe si aggrappò al cratere, mentre le rocce più friabili cadevano a causa dei suoi artigli, la coda che sbatteva contro le pareti della sua culla, distruggendola.
Il branco corse a più non posso, ma molti vennero travolti dai massi o dai loro stessi compagni nella fuga disperata.
La ragazza smise di urlare, paralizzata dal terrore, e fissò Vesuvio con un misto di rispetto e disperazione.
«Aiutami.» sibilò. «Portami via da qui.»
Vesuvio la fissò di rimando. Non aveva mai avuto bisogno di imparare a parlare se non con le proprie ali e il proprio fuoco.
Il suo fiato bollente faceva ondeggiare quei crini lucenti, la pelle del viso arrossata dal calore e sporca di terra e lacrime.
«Io…mi chiamo Luce.» disse, con un filo di voce ma determinata. «Non importa se vuoi mangiarmi o imprigionarmi da qualche parte, davvero. Non importa. Mi hanno impalata e condannata a morte, proprio quelli che ho amato e difeso per tutta la vita, e a cosa è servito?»
Molto meglio di quel che avevo sperato. Una rinnegata.
«Uccidimi come vuoi, ma a quel punto uccidi tutta la specie a cui appartengo perché non si merita altro che questo. Li odio e il pianeta starà molto meglio senza di noi. Siamo dei parassiti e dei demoni che sfruttano le risorse finché non le hanno prosciugate completamente. Oppure, puoi lasciarmi in vita e insieme guideremo chi è rimasto, tutti gli animali e le piante e le rocce, verso il futuro. Non ci saranno più abusi e sofferenze per nessuno, soltanto la legge di natura sarà la nostra legge, uguale per tutti. Mi vogliono come capro espiatorio, invece sarò un Messia e loro si perderanno la nuova venuta perché non l’hanno meritata. Tu la meriti, tu e il mondo a cui appartieni. La cenere fertilizza, ma solo dopo aver distrutto il male che l’ha preceduta.»
Vesuvio si avvicinò a lei e con un’invidiabile delicatezza rispetto alla sua mole la liberò. Quindi la sollevò con le zampe e se la mise sulla schiena.
Infine, si ricordò come si vola.
Luce, così bianca e minuta, si tenne forte alle scaglie scure del compagno, guardando con rassegnazione e odio l’estinzione della sua specie. La paura era passata nell’ esatto momento in cui aveva incontrato gli occhi piccoli e color rame di Vesuvio, occhi di una saggezza lontana e con una nota di nostalgia. Non si era mai fidata così tanto di nessuno della sua specie né di un compagno a quattro zampe che viveva con lei. Le sembrava del tutto ovvio cavalcare stretta fra le poderose ali che sembravano fatte di pelle nera e rosso scuro e cartilagine, perciò non si spaventò quando Vesuvio si alzò su due zampe e poi prese a battere le ali finché non furono al sicuro in aria.
Laddove non vi erano lava e terremoti, vi erano alluvioni e pestilenze mortali, poi siccità e fame. Da centinaia di metri sopra la terra, vide i suoi simili correre e piangere, pregando di essere salvati da divinità che si erano inventati per giustificare ogni loro comportamento. Vide tutti i morti che avevano causato e tutte le devastazioni che avevano perpetrato, dalle cascate di cemento ai cimiteri di alberi fino alle fosse dove avevano lasciati i loro cadaveri di cui non ritenevano più dignitoso ricordarsi.
«Figlio della terra e maestro del cielo, tua è la potenza e la gloria di tutti i secoli che sono stati e che verranno.»
Vesuvio ruggì e lasciò che il mondo che lo aveva risvegliato si torcesse nel fuoco e nel dolore.
Non era mai stato un problema, questo.
Sarebbe nato un nuovo mondo, di nuovo, e questa volta sarebbe stato migliore.
di Laura Pegorini
Foto di Urbex_Footsteps